Work Text:
Pareti bianche
(You'll never find a rainbow if you're looking down)
“Ma sei venuto a prendermi?”
“No Andre, volevo passare un po' di tempo sull'autobus.”
Di giornate di merda Andrea potrebbe elencarne parecchie, ma quella che è appena a metà, quando si lascia alle spalle il cancello della scuola, due insufficienze, il silenzio addolorato di Marco e il rimbrotto di suo zio che pur ospitandolo non manca giorno di fargli notare che deve sistemare le cose con i suoi, minaccia di superarle tutte.
Se non accade è perché Daniele lo aspetta alla fermata dell'autobus con le braccia conserte e la schiena appoggiata al palo, e con la sola presenza ribalta completamente l'esito della giornata.
“Dico davvero, che succede?” insiste Andrea quando è abbastanza vicino da permettergli di rispondere senza che altri sentano.
Daniele raddrizza la postura e serra le labbra per trattenere un sorriso: “Volevo mostrarti una cosa” gli dice, “vieni con me?”
La risposta per Andrea è talmente scontata che nemmeno si prende la briga di darle forma. Del resto Daniele, perfettamente allineato ai suoi mezzi di comunicazione, ha smesso di reprimere il sorriso ancor prima che avesse il tempo di esternarla.
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“Embè?” chiede divertito Andrea quando, dopo aver girato la chiave nel portone di accesso al condominio dove sta Vitto, Daniele si scansa e lo fa passare per primo.
“Mo lo vedi” è la sua laconica risposta.
Che è bello, Andrea lo pensa sempre, quello che lo rende particolarmente radioso, mentre attendono che l'ascensore scassato li conduca all'appartamento, è quell'impazienza allegra che gli modifica le guance ogni secondo che passa, come se l'idea di mostrargli qualunque cosa abbia in mente, lo rendesse impaziente tanto quanto lui, se non di più.
Non riesce a tenere fermi i piedi, mentre sosta sulla soglia il tempo necessario a sbloccare la serratura dell'appartamento, né le mani, quando entrato nell'ingresso dopo di lui, gliele posa sulle spalle come se volesse guidarlo.
“In camera da letto” esplica, con un sussurro vicino al suo orecchio.
Il respiro di Daniele sulla sua pelle è sufficiente a irruvidirgli le braccia e bloccargli il respiro. Nemmeno si rende conto di essersi fermato.
“Vitto non c'è?” chiede in un soffio.
Daniele scoppia a ridere: “Non voglio scopà, dai muoviti!”
“No?” non sa se essere deluso o ridere con lui.
“No. Cioè... sì. Ma non è per quello che ti ho portato qui.”
“E allora per cosa?” Andrea comincia a sentirsi confuso, tramortito dalla vicinanza e dall'incertezza. Non ha mai amato le sorprese, non erano mai quello che desiderava.
Daniele lo recupera prendendolo per mano e lo lascia solo quando sono di fronte alla camera da letto.
“Ecco qua” mormora, indicandogliela con un cenno della testa.
Dalla porta semiaperta, la prima cosa che Andrea nota è il bianco immacolato e l'odore di pittura.
“Ma hai imbiancato?” gli chiede fermandosi sulla soglia della stanza.
Daniele solleva le guance in un sorriso soddisfatto.
Basterebbe quello a riscattare anni di sorprese sgradite. Quello e il sole del primo pomeriggio che filtra dai vetri della finestra e rimbalza sulle pareti bianche per concludere il suo viaggio sul volto di Daniele, cancellando quella perenne ombra scura dal suo sguardo.
Eppure, quando in piedi nella cornice della porta, sente il fiato risucchiato in un vortice che gli ribalta tutto ciò che ha in petto, non è Daniele che sta guardando, ma il pianoforte verticale appoggiato alla parete.
“Ti piace?” gli chiede Daniele col tono tinto dal sorriso.
Non riesce a rispondergli. Non riesce a spiegare la sensazione di quel peso opprimente che l'abbandona, al pensiero che sia proprio lui a restituire valore a l'identità che sua madre gli ha strappato da bambino.
Si rifugia negli interrogativi concreti e anche su quelli la voce traballa.
“C..cos...Come?”
Per tutta risposta Daniele si caccia le mani in tasca e alza le spalle.
“Non dovevi” riesce ad articolare Andrea. “I... i soldi ti servono per la penale...”
“Ne abbiamo già pagata metà, Andre, e siamo d'accordo che salderemo appena possiamo” gli risponde Daniele con semplicità. “E comunque non l'ho comprato.”
Andrea lo guarda interrogativo.
“Ehi, non fare quella faccia, mica l'ho rubato!” ride, “ho detto all'agenzia che mi serviva per l'arrangiamento dei nuovi pezzi e hanno acconsentito a prestarmelo.”
“Un pianoforte per l'arrangiamento dei vostri pezzi?”
“Sì” conferma. “Che non ci credi?”
“Mi stupisce che ci credano loro.”
C'è un leggero segno di disagio nel modo in cui Daniele serra le labbra, come se si sentisse in difetto per quel regalo giunto per sua intercessione, ma non pagato da lui: Andrea si pente di non aver esternato la commozione che prova, gettandogli le braccia al collo.
Si sporge verso di lui e gli sfiora la guancia con le labbra. Vorrebbe ringraziarlo, ma quelle parole non gli escono, al pari di tante altre, e allora rimane lì, con la bocca sulla sua pelle calda, finché non sente la mano di Daniele risalirgli la schiena in una lenta carezza, ed è allora che la gola gli si chiude e il petto sobbalza.
Per quel regalo. E per il modo in cui Daniele lo asseconda in tutto ciò che sente d'esternare: che siano lacrime o battute sarcastiche. Vestiti a fiori o camicie in jeans. Pianoforti o palloni da basket.
Quando si stacca da lui gli occhi gli pungono e le mani di Daniele sono tutt'e due sulla sua schiena.
“Tutto bene?” gli chiede con tono incerto.
Andrea annuisce tirando su col naso.
“Posso provarlo?” chiede indicando il pianoforte.
“No, lo lasciamo lì.”
E Andrea ride, di una risata umida che sa di lacrime, per metà uscite e per metà ricacciate indietro.
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Il timbro è vibrante, Andrea alleggerisce il tocco e lo rende dolce.
Non sa fare molto, non ha esperienza e neppure orecchio, ma lo strumento sotto le sue dita sembra dar voce a quella parte di sé che per tanti anni ha tenuto chiusa dentro. Sapere che è Daniele ad avergli dato modo e mezzo di liberarla gli appanna la vista e sfoca lo spartito su cui già fatica a leggere le note.
Rinuncia dopo il terzo tentativo stonato, e dando per la prima volta le spalle al pianoforte, si rende conto che Daniele è seduto sul bordo di un letto matrimoniale.
“E questo?” chiede. È abbastanza sicuro che l'ultima volta che è stato in quella casa lui e Daniele si siano stretti su di una misera branda da una piazza.
“Viene dalla camera della nonna di Vitto” spiega Daniele invitandolo a sedersi accanto a lui con un cenno della mano, “il materasso però l'ho comprato.” Sorride, eppure nel suo sguardo Andrea vede qualcosa di triste: qualcosa che ha a che fare con l'indigenza in cui è cresciuto e che lo obbliga ad uno stato di perenne e amara gratitudine per cose che altri nemmeno devono chiedere.
“Sembra comodo” commenta lasciandosi cadere di schiena, “ci hai già dormito?”
Daniele lo segue e volta la testa verso di lui: “No.”
C'è un sottinteso in quella risposta e nel modo in cui lo guarda che ad Andrea accelera il battito cardiaco, chiude gli occhi e quando li riapre la stanza è punteggiata da tremuli spicchi d'arcobaleno; il sole che va e viene li fa apparire e scomparire. Daniele ne ha uno anche sul naso.
“Ma cos...” borbotta, prima di accorgersi che sopra di loro troneggia un imponente lampadario a pendenti.
“Anche quello era della nonna di Vitto?” chiede muovendo la mano dove vede comparire lo spettro dei colori.
Daniele annuisce, anche lui guarda la sua mano assorto: “Ho pensato che ti sarebbe piaciuto.”
Andrea si volta verso di lui e gli bacia la bocca.
“Mi piace” conferma.
Daniele sorride e si solleva su un gomito.
“Allora...” fa una pausa, respira. “Allora ci vieni a stare? Qui, intendo. Con me.” Abbassa lo sguardo, poi lo rialza per qualche istante. Ha gli occhi enormi, le labbra socchiuse e un moto di nervosismo che gli agita il piede facendo vibrare il letto.
Andrea non l'ha mai visto così bello e così perso. Si gira su un fianco e gli posa una mano sulla guancia: “Fammi chiamare mio zio.”
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Daniele sembra non dormire mai.
Forse è per quello che ha sempre lo sguardo contornato da ombre scure.
Andrea l'ha notato appena hanno iniziato a dormire insieme.
È il primo che si sdraia esausto la sera, ma l'ultimo che chiude gli occhi.
Se fa il turno di notte, sonnecchia di mattina per qualche ora mentre lui è a scuola e quando torna lo trova con le cuffie, intento nell'arrangiamento di un nuovo pezzo.
A volte, dopo aver fatto l'amore, Daniele gli appoggia la testa e la mano sul petto e ad Andrea sembra di poter interrompere lo stato d'allerta che non lo fa mai riposare; gli accarezza il collo e la schiena e quando sente il peso su di sé aumentare, sa che è scivolato nel sonno.
E non si muove, rimane immobile per paura di svegliarlo, anche se sa che Daniele, in quel modo, dormirà profondamente per tutta la notte.
Andrea ci ha provato, la notte appena trascorsa, quando l'ha afferrato per le spalle e trascinato tra le sue braccia, dopo averlo sentito agitarsi per ore, ma l'unica cosa che ha ottenuto, dopo un sospiro esausto, e stato un dormiveglia da cui è riemerso a cadenza regolare con un lieve sussulto.
Adesso, che l'alba è già arrivata a rischiarare la stanza di luce soffusa, e la sveglia del primo turno è in procinto di reclamarlo da uno dei pochi momenti di sonno, Andrea pensa che sia ingiusto che lui sia lì, al suo fianco, sotto le coperte, ma possa fare ben poco per aiutarlo.
Si alza, gira attorno al letto e dopo aver afferrato il cellulare di Daniele dal comodino ne disattiva l'allarme.
Siede sul bordo del materasso e Daniele rivolto verso di lui con le palpebre abbassate e il respiro regolare non si muove. Se potesse lo lascerebbe dormire e invece deve accontentarsi di svegliarlo piano, lasciando scorrere le dita tra i suoi capelli, come ha fatto lui sul pavimento dell'ospedale due mesi prima, senza nemmeno curarsi di chi potesse vederli.
“L'ha fatto per la droga, non per chi sei” gli ha sussurrato quella volta.
E Andrea lo sa che ha ragione, ma lo schiaffo di suo padre gli ha fatto male quanto gli occhi freddi di sua madre.
Il telefono segna le 6:30, ma non emette suono.
Andrea sospira e si alza per raggiungere il pianoforte.
Un leggero giro di melodia gli esce dalle dita.
Lo ripete un paio di volte e quando si gira di nuovo verso il letto Daniele ha gli occhi aperti.
È immobile, nella esatta posizione in cui prima sonnecchiava, e lo guarda come se la realtà non avesse interrotto il sogno, come se le note uscite dai tasti non avessero interrotto il suo momentaneo riposo.
“Ciao” gli dice Andrea in un sussurro.
Daniele non sbadiglia, non si stiracchia. Ha lo sguardo basso e attento.
“Continua” gli dice.
Andrea sorride e lo accontenta, lasciando scorrere le dita sui tasti in un nuovo giro di accordi.
“Sei diventato bravo.”
“Sì” risponde, anche se non ci crede. “E tu devi alzarti.”
Daniele scosta le coperte, scende dal letto e lo raggiunge.
Le ombre sotto gli occhi sono sempre lì, il modo in cui gli si avvicina invece sembra ogni volta più dolce.
Lo bacia contro il piano -che adesso non è più il solo a conoscere la sua natura- e i tasti suonano una cacofonia sconclusionata e perfetta che risuona su tutte le pareti di casa.
“Basta, porcoddue!” grida Vitto con vocia impastata dall'altra stanza.
E loro ridono, l'uno sulle labbra dell'altro.
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“Non bastava passà la notte su quella branda de merda” commenta Vitto, mentre apre il portone d'ingresso. Ilo che ha avuto il buon senso di portare la colazione a tutti, lo guarda dal pianerottolo senza capire. “Da quando ce sta Andrea me pare de dormì dietro le quinte del Teatro della Scala.”
“Adesso te da noia pure la musica, Fra?” brontola Daniele uscendo dal bagno.
Andrea solleva le sopracciglia e non commenta.
“Che è il Teatro della Scala?” chiede Ilo, varcando la soglia.
Fine.
